Vecchie e nuove destinazioni: ripartono i bastimenti

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Le prospettive del Friuli alla fine della seconda guerra mondiale sono, per alcuni aspetti, simili a quelle del novembre 1918. La necessità di emigrare trova gli stessi sbocchi e in breve gli stessi ostacoli.

Nei primi anni qualsiasi meta sembra accettabile e flussi consistenti prendono la via della Francia e del Belgio, degli Stati Uniti, dell'Argentina, del Canada, dell'Australia e del Sud Africa. L'unica novità è rappresentata dalla corsa al Venezuela: nel Friuli occidentale interessa soprattutto la Val d'Arzino, la Val Meduna, la Val Cosa e paesi come Spilimbergo, San Giorgio della Richinvelda, Valvasone e Arzene.

Nel secondo dopo guerra, quindi, la mappa delle destinazioni e dei mestieri non sembra subire maggiori variazioni. Spesso i compaesani che nel ventennio si sono trasferiti in Paesi come la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti o l'Argentina agiscono come punto di riferimento per quelli che emigrano dopo il 1945.

Il 20 giugno 1946 il Governo italiano firma con l'omologo belga il primo accordo bilaterale di emigrazione stipulato dall'Italia dopo la seconda guerra mondiale.

Le autorità italiane s'impegnano a inviare nelle miniere belghe 50.000 lavoratori, possibilmente al ritmo di 2.000 per settimana.

Il Governo belga, da parte sua, avrebbe venduto all'Italia fino a 200 chilogrammi di carbone al giorno per emigrato.

Nel Friuli occidentale i minatori appartengono soprattutto alla Valcellina, a Barcis, a Montereale Valcellina, a Zoppola, a San Martino di Campagna.

Le condizioni del lavoro sono pesantissime, la qualità degli alloggi spesso scadenti: i minatori abitano nelle baracche di lamiera precedentemente occupate dai prigionieri di guerra. Molti sono i Friulani colpiti da silicosi: l'inalazione della pussiera (polvere di carbone e di roccia) impregna i bronchi dei minatori compromettendo progressivamente le funzioni respiratorie.

Tra gli anni '50 e '60 i vantaggi economici del lavoro stagionale in Svizzera e, in minor misura, in Germania attirano un alto numero di lavoratori friulani e italiani.

Vanno di regola a svolgere mansioni rifiutate dai salariati indigeni, occupano quindi le nicchie che la mobilità sociale ascendente delle classi operaie locali lasciano libere.

Svizzera e Germania cercano di bloccare la crescita sociale e occupazionale dell'emigrato adottando forti restrizioni sui permessi di lavoro, sul trasferimento della famiglia rimasta in patria, sui periodi di permanenza.

L'emigrante quindi trasferisce progressivamente le proprie aspettative di mobilità sociale dal paese di emigrazione al paese di provenienza, dove fa confluire le rimesse che spesso vengono utilizzate per l'acquisto di campi o per la costruzione della propria casa.